Ci risiamo: dopo maggio, pochi giorni fa avviene l’ennesimo attacco
alla comunità LGBTQ+ ungherese.
Viene proposta una modifica alle leggi riguardanti l’adozione genitoriale: se prima era sufficiente essere una coppia, adesso serve il matrimonio, che in Ungheria è legalmente visto come “unione fra uomo e donna”.
A questo si aggiunge anche l’incidenza di altre restrizioni (che rappresentano, per certi aspetti, un’ulteriore caduta verso l’autoritarianismo) legate ai contagi del Covid.
L’obiettivo finale è chiaro e ci viene pure sottolineato (da parte di altre associazioni a protezioni dei diritti umani come Hàttér Society) e da altre politiche (come Bernadett Szél, indipendente, e Katalin Cseh, partito d’opposizione Momentum); inoltre è presupposta dalle leggi precedenti l’impossibilità di manifestazione di dissenso, e questo mina le possibilità di “contrattaccare”.
L’Unione Europea risponde facendo sapere che la garanzia dei diritti e della dignità del singolo è centrale e insostituibile nelle Costituzioni dei Paesi membri, tirando in causa anche la Polonia, dove il partito Diritto E Giustizia ha incentrato il suo programma sulla lotta alla famosa “ideologia LGBTI” (fallendo pure nello scrivere correttamente il nome).
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